Enrico Castelli Gattinara di Zubiena
(Torino, 20 giugno 1900 – Roma, 10 marzo 1977)
Enrico Castelli Gattinara di Zubiena nasce a Torino nel 1900, da una famiglia di origini nobili. Allievo a Roma di Bernardino Varisco, si forma aderendo ai principi del volontarismo e della filosofia dell”azione di autori quali Maurice Blondel, Lucien Laberthonnière, Gabriel Marcel. Nel 1931 fonda a Roma la rivista «Archivio di Filosofia», che avrebbe diretto sino alla morte, mentre al 1939 risale la costituzione dell”Istituto di Studi Filosofici, oggi a lui dedicato. A partire dal 1940 tiene la cattedra di Filosofia della Religione all’Università di Roma.
La sua è una prospettiva esistenzialistica, in effetti piuttosto sui generis, improntata a una lettura teologica della storia e dell’essere umano. L’obiettivo che ne anima la riflessione è quello di superare il solipsismo del soggetto derivato dalle principali filosofie del tempo, il neoidealismo su tutte, per guadagnare un “senso comune”, un terreno fertile all’incontro con gli altri e con il divino. A partire dai primi anni Sessanta, si fa promotore a Roma di un ciclo di convegni internazionali – o meglio «Colloqui», come ama chiamarli – dedicati al tema della demitizzazione. A questi convegni prendono parte alcuni dei volti più noti del panorama filosofico italiano e internazionale dell’epoca: Paul Ricoeur, Hans-Georg Gadamer, Umberto Eco, Emmanuel Levinas, Ugo Spirito, Gershom Scholem, Guido Calogero, Yves Congar, Jean Daniélou, Gaston Fessard, solo per menzionarne alcuni.
Tra le sue opere principali, danno conto di questi temi già nel titolo: Filosofia della vita (1924); Idealismo e solipsismo (1933); L’esperienza comune (1942); Existentialisme théologique (1948); I paradossi del senso comune (1970), La critica della demitizzazione (1972).
Se volessimo condensarne l’intera filosofia in una formula, potremmo forse definirla un pensiero militante contro il solipsismo. “Militante”, soprattutto, perché trova piena espressione come pratica di pensiero, piuttosto che come sistema teorico. E questo a vari livelli: dalla scelta narrativa, tipica degli anni Quaranta, di privilegiare lo stile diaristico all’argomentazione del saggio filosofico, all’approfondimento di tematiche e categorie che, dal suo punto di vista, possono consentire una qualche rottura nel pensiero unico o, perlomeno, denunciarne gli esiti più radicali; sino ad arrivare, dai primi anni Sessanta, alla realizzazione dei Colloqui, che probabilmente rappresentano la massima espressione performativa di tutta la sua “opera” filosofica: la trattazione del problema della demitizzazione (nella scelta della sede convegnistica, degli interlocutori, nelle tematiche via via fatte reagire in questo plesso di prospettive) incarna allora pienamente quell’istanza antisolipsistica che da sempre rappresenta il principale motivo ispiratore di tutta la sua riflessione.